8.00

Recensione Lost In The Open per PC (Early Access)

Un mondo tetro, magia, sangue e strategia: seguiteci nella recensione di Lost in the Open per PC

Un altro mondo oscuro

Ci sono giochi che ti prendono per mano e ti portano in giro per mondi sontuosi, e poi c’è Lost in the Open, che ti lascia in mezzo a colline fredde e sentieri insidiosi chiedendoti di cavartela con poco, pochissimo, trasformando ogni metro in una scommessa e ogni turno in un respiro trattenuto. Fin dai primi passi ci siamo ritrovati in un low fantasy asciutto e credibile, dove la sopravvivenza è una negoziazione continua tra rischio e parsimonia, tra posizionamento chirurgico e rinunce calcolate, con quella sensazione di precarietà che ci ha ricordato i racconti emergenti di Battle Brothers e il pragmatismo spietato di certa scuola tattica moderna. La fuga del re screditato diventa la nostra, e la mappa un diario di cicatrici e opportunità strappate, in un equilibrio dove la difficoltà non è un vezzo ma il motore che accende storia, scelte e combattimenti. Abbiamo stretto il mantello, contato le bende e imparato a chiamare piano ciò che altri chiamerebbero miracolo: seguici nella nostra recensione di Lost in the Open per PC.
 

 

La trama di Lost In The Open

La premessa narrativa di Lost in the Open è essenziale e funzionale: si vestono i panni di Nrvesk, un re screditato scampato a un attentato, costretto ad attraversare un territorio ostile cercando di espiare colpe e scelte infami del passato. Non siamo nel regno dell’epica granitica: la trama preferisce parlare tramite situazioni emergenti, incontri e decisioni su crocevia nebbiosi, dove un bagliore in lontananza può essere un mercante stanco o un agguato feroce, con ricadute immediate sul prosieguo della campagna. La sensazione di “continuum diegetico” tra storia e sistema ludico nasce proprio dalla persistenza delle conseguenze: la moralità non abita in menù o codici, abita nelle condizioni della compagnia e nei rischi accettati per tirarla fuori dalla fossa.
    

  
Il racconto usa l’overworld come teatro di tensioni morali e opportunistiche: accettare l’aiuto di una carovana può significare alleggerire le scorte o esporsi a un debito, scegliere il silenzio in un villaggio malfidato può risparmiare sangue ora e costare caro dopo quando un informatore venderà la posizione. La scrittura, più asciutta che prolissa, affida a brevi testi d’evento e a una punteggiatura di scelte la costruzione del tono: la maestà è bandita, resta la sopravvivenza, e con essa il dubbio di meritarsela, per un sovrano che ha perso il diritto di darsi del giusto. Non è un mondo che si apre in lore enciclopedici o codici, ma in aneddoti e rischi, dove l’ellissi è parte della poetica e la memoria del giocatore riempie i vuoti: la narrativa qui è ritmo di decisioni prima che esposizione. Il gioco è in inglese al momento dell’accesso anticipato.
 
Un elemento che rende coesa la direzione narrativa è l’interdipendenza con la difficoltà: le scelte “giuste” non sono le più nobili, sono quelle sostenibili, e la scrittura non punisce né premia morale astratta quanto l’onestà tattica con la condizione in campo. Nrvesk non è un eroe destinato, è un fuggiasco che cerca di guadagnarsi un domani un turno alla volta, e la campagna scrive la sua cronaca a colpi di fortunate deviazioni, aridi compromessi e sanguinose battaglie dalle quali si esce zoppicando. Dove altri giochi cercano “tema” in big speech e cinematografie, Lost in the Open lo cerca nell’attrito delle meccaniche e nel realismo morale del tagliare e cucire in condizioni pessime, e in questo trova un’identità forte.
 

 

Il gameplay di Lost In The Open

La spina dorsale del gameplay di Lost in the Open è un combattimento tattico a turni su griglia, con enfasi su posizionamento, attacchi di opportunità, flanking e gestione chirurgica delle risorse limitate come abilità, bandaggi e stamina. Ogni scontro è disegnato per punire i movimenti affrettati, con nemici che costringono a “pescare” l’errore e a costruire linee di tiro e ingaggi che proteggano il portatore d’armi a due mani tanto quanto l’esile arciere dagli affondi laterali. Le uccisioni e l’esperienza si distribuiscono con criterio, legando progressione e rischio: incontri più duri fruttano XP migliori, e la tentazione di stringere i denti in uno scontro in salita si mescola con la paura di perdere un veterano per una ferita che non si rimargina con un bivacco improvvisato.
   

Lost in the Open ci ha convinti per coerenza di visione, chiarezza delle regole e capacità di trasformare l’attrito in racconto

 
Fuori dal campo, l’overworld a eventi scrive l’economia di campagna: si raccoglie un gruzzolo modesto, si comprano forniture, si soppesano deviazioni verso punti di interesse con forzieri non sempre apribili, come ricorda un episodio con un baule serrato che richiede una chiave e spinge a ripiegare su un saccheggio più umile per racimolare monete e cibo. Il ciclo è asciutto, con loop chiari e poco dispersione: esplora, scegli, combatti, cura, e riparti, con la persistenza delle ferite che obbliga a una pianificazione a medio termine, non solo al turno brillante in battaglia. La difficoltà non è un numeretto: è il design di input e output ristretti, il margine strettissimo di errore, la pedagogia ruvida che porta a considerare la ritirata una mossa intelligente e non una vergogna.
  
Il gusto per la sfida emerge anche dalla curva d’apprendimento definita “tosta” dagli stessi materiali e dalla copertura video della community, dove si sottolinea quanto il gioco si aspetti familiarità con meccaniche tattiche e non regali iterazioni ad occhi chiusi. In compenso, la frizione è pulita: le regole sono leggibili, la telemetria degli effetti appare chiara, e la soddisfazione di incastrare pozioni, movimenti e attese per generare un vantaggio cumulativo in due turni vale l’investimento emotivo richiesto. Chi viene da Battle Brothers o da la scuola “posizionale” dei tattici moderni riconoscerà la necessità di costruire geometrie non solo con chi infligge danno, ma con chi assorbe e congela spazi, impedendo agli avversari di trovare i fianchi.
 

 

L'arte e la tecnica di Lost In The Open

La direzione artistica abbraccia un low fantasy crepuscolare e “terroso”, privo di eccessi cromatici e più attento a materia, ombre e silhouette funzionali alla leggibilità della battaglia. Non si cerca il colpo di teatro visivo, si lavora per sottrazione, lasciando che l’identità derivi da texture ruvide, da ambientazioni boschive o collinari che suggeriscono più che dichiarare, e da interfacce che non distraggono. L’insieme restituisce un mondo povero e credibile, dove l’attenzione ai contrasti e alla chiarezza direzionale conta più della grandeur, coerente con il tono generale e con l’anima survival della campagna.
  
Sul fronte tecnico, l’accesso anticipato si presenta stabile, con un’implementazione pulita del combattimento, tempi di caricamento rapidi e una pipeline di eventi che scorre senza intoppi nelle sessioni visionate. Le performance si mantengono leggere, in linea con un progetto che privilegia la portata sistemica e la leggibilità tattica rispetto a effetti di post-processing ingombranti o a densità visiva esuberante. L’interfaccia comunica con chiarezza i principali vettori decisionali: turni, abilità, stato di salute e supporta una comprensione rapida anche nei momenti di maggiore tensione, elemento chiave per un roguelike punitivo. 
   
L’audio segue una filosofia di sottrazione: percussioni basse, temi scarnificati e sound design centrato sul feedback tattile dell’azione (colpi, strappi, passi e respiri affannati) aiutano a tenere il giocatore “nello spazio mentale” della sopravvivenza . Non è una colonna sonora che ruba la scena, è una intelaiatura che la regge, lasciando spazio alla concentrazione e ai microsegnali sonori che veicolano rischio e opportunità. Il risultato è un profilo acustico discreto ma coerente, complice nella costruzione di quell’ansia bassa che attraversa tutta la fuga di Nrvesk.
 

 

Lost In The Open

Arrivati in fondo al nostro viaggio, rimane addosso quella fatica buona delle partite che insegnano senza predicare, il gusto delle vittorie sporche di fango e il rispetto per un design che non fa sconti e non cerca alibi. Lost in the Open ci ha convinti per coerenza di visione, chiarezza delle regole e capacità di trasformare l’attrito in racconto, pur con una curva d’ingresso ruvida e qualche inevitabile strappo tipico della variabilità roguelike. Se l’idea di un tattico che vive di posizioni millimetriche, ferite persistenti e scelte scomode accende la scintilla giusta, qui c’è una fuga da ricordare e da rigiocare, una marcia che costruisce carattere un turno alla volta e che continuerà a far parlare di sé a ogni nuova run.

8.00

Trama 7.50

Gameplay 8.50

Arte e tecnica 7.50

Pro:

combat tattico leggibile profondo e spietato

direzione artistica molto interessante

Contro:

curva d’apprendimento ripida

manca l'italiano

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